Io, Daniel Blake – Un uomo analogico in un mondo digitale

Daniel Blake vive a Newcastle, è alla soglie dei sessant’anni ed ha appena avuto un infarto. Dichiarato idoneo al lavoro da una professionista sanitaria, nonostante ciò sia stato assolutamente sconsigliato dal suo medico e dal chirurgo, Dan è costretto ad impelagarsi in un labirinto di infinite scartoffie e procedure burocratiche per ottenere il sussidio di disoccupazione e fare ricorso per l’indennità di malattia. Presso l’ufficio governativo incontra Daisy, anche lei senza lavoro e in difficoltà economiche, con due figli a cui badare. Nascerà tra loro un grande affetto, un legame che si basa sulla comprensione della reciproca condizione, sulla solidarietà di classe.

Quella raccontata nell’ultimo film di Ken Loach, che con “Io, Daniel Blake” si è aggiudicato per la seconda volta la Palma d’oro al Festival di Cannes, è la storia di una società crudele, dalla quale l’uomo viene sopraffatto, che porta allo sfinimento dell’individuo, fino all’estremo. Fino a costringere Daniel a scrivere la propria protesta sul muro dell’ufficio governativo con una bomboletta spray, fino a costringere Daisy a vendere il suo corpo per sopravvivere.
La scena più toccante si svolge all’interno di un Banco alimentare, dove la donna, sopraffatta dalla fame, mangia dei pelati direttamente dalla scatola di latta. Perché una persona ridotta allo stremo può perdere ogni tipo contegno, di filtro sociale.

Quello descritto nel film è uno Stato in cui una burocrazia folle rende impotente l’uomo, ridotto ad un numero di previdenza, ad un nome in un pc. Dan, un uomo del passato, legato ancora alla matita, per quarant’anni carpentiere, viene catapultato, suo malgrado, in un futuro distopico in cui chi non è abile nell’utilizzo della tecnologia non può agire nella società e curare i propri interessi. Al punto di vedere negati, schiacciati i propri diritti, in un mondo sordo, privo di una qualsiasi empatia, un mondo digitale in cui non c’è più posto per un uomo analogico, che va via senza però perdere la dignità, senza mai chinare il capo dinanzi allo Stato.

Andrea Ruberto