Alla Galleria Toledo la compagnia Gli Incamminati presenta “SdisOrè”

Dal 25 al 30 aprile 2017 debutta a Galleria Toledo la compagnia Gli Incamminati con lo spettacolo “SdisOrè” di Giovanni Testori per la regia di Gigi Dall’Aglio, con Michele Maccagno e le musiche eseguite da Emanuele Nidi.
Sdisorè” ripercorre la strada della riscrittura delle grandi tragedie, già sperimentata da Testori con Ambleto, Macbetto e Edipus.
L’Orestea di Eschilo diventa materia plasmabile da reinventare radicalmente, per affidare ad un narratore monologante il tormento di Oreste, le voci e i corpi di Clitennestra, Egisto e Elettra. Centro del testo è la parola incarnata che genera ogni volta una lingua nuova, dove il dialetto lombardo è solo il polo d’attrazione al quale si legano lingue vive e inventate (francese, spagnolo, inglese, latino).

…si chiama Gli Incamminati, è una cooperativa che prende il nome da una celebre accademia d’arte del Seicento bolognese. Ma non è il richiamo a quei pittori a interessarci quanto l’indicazione programmatica contenuta nel sostantivo: di uomini in cammino verso la fondazione di una forma teatrale dell’oggi” – Giovanni Testori, 29 ottobre 1983.

Nel cammino di una compagnia teatrale – che non ha un “bene culturale” già fissato da difendere, poiché il suo “bene culturale” coincide con il suo stesso dna, e il dna si palesa nel tempo e nel cambiamento – i sacrifici sono sempre belli e luminosi. Nella storia degli Incamminati, come detto, c’è stata una consegna ed è in ordine a quella consegna che i sacrifici hanno acquistato senso, ragionevolezza e bellezza.

C’è chi si batte per un bene proprio, per un proprio pensiero, per una propria idea – insomma, per una sua proprietà. Il patrimonio degli Incamminati, viceversa, sta tutto in qualcosa che non appartiene loro, in qualcosa che hanno ricevuto in eredità, in qualcosa che viene da lontano. Tutto quello che cercano di dire è qualcosa che hanno a loro volta imparato. Ma proprio questo li rende particolarmente incontrollabili, difficili da addomesticare, poco omologabili. Il loro lavoro non si presenta con i tratti rassicuranti di uno stile definito, di un gusto, di una poetica, ma con quelli – più difficili – di un amore che, per esistere, ha bisogno di un “sì” quotidiano“.
Tratto da Luca Doninelli, ‘Trenta volte Incamminati‘, Communitas, giugno 2011.

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Milano in questi anni sta cambiando la propria identità, si sta aprendo al mondo e sta cercando una dimensione metropolitana. In questo dinamismo diventa ancor più interessante il desiderio di confrontarsi con un autore che della ricerca e della contaminazione ha fatto il suo tratto distintivo. Giovanni Testori parte dalla propria identità, dalla propria storia, di cui Milano è sempre stato il centro, per creare commistioni con diversi generi e suoni e porta alla luce una nuova lingua e nuovi suoni, derivati da un dialetto che non si usa più, ma che assorbe i francesismi e i modi di dire che ci rimandano ad un ascolto diverso, profondo, di attesa.

Un solo attore in scena dà vita a tutti i personaggi, ma continua a fermarsi per far emergere la sua storia, perché solo partendo dalla nostra identità si può far emergere quella altrui. Oreste torna a casa per vendicare il padre Agamennone, ucciso da Clitennestra e dal suo nuovo “ganzo”, Egisto, che ora ne usurpa il trono. Accompagnato dall’amico Pilade, trova ad attenderlo alla tomba di Agamennone la sorella Elettra.
Ancora una volta Testori sposta il contesto della tragedia: dalla reggia degli atridi siamo calati nel cuore della provincia Milanese, suo amato paesaggio natale. Da qui discende una tragedia “un po’ da stalla” – come lo definì lo stesso autore – molto cruenta, ma anche divertente e comica per l’espressività del linguaggio.
L’intreccio è lo stesso della tragedia eschilea fino a virare bruscamente poco dopo la metà: «per questo lo chiamo sdisOrè, perché la negazione si fa totale». Dopo l’assassinio, perde il coraggio e dice «in due mi divisco»: l’eroe quindi rinuncia alla giustizia civile, all’assoluzione di Atena e dei cittadini e mentre la voce di Oreste lentamente sfuma in quella dell’autore, lo spettacolo finisce nella ricerca di una coscienza comune, nell’attesa di un perdono.

Sdisorè” è l’estremo omaggio di Testori alla carità salvifica. Omaggio che acquista ancora maggior valore dalla diversità profonda tra la riproposizione e il modello offerto dalla tradizione tragica. L’eroe portatore della carità che salverà il mondo ha qui tanto più efficacia di esempio in quanto oltre che staccarsi dalla massa corrotta e degradata dell’umanità, in modo da vederne il marcio e cercare rimedio, si distacca in modo provocatorio da secoli di tradizione, tanto da rinunciare al suo nome e alla sua identità mitica. Questo è quello che accade allo scarrozzante-Oreste alla fine del suo monologo drammatico: il filo della vendetta, dopo essere stato teso nel corso del dramma con l’aiuto dell’enfasi sulla negatività della figura di Clitemnestra, si spezza improvvisamente mediante l’affidamento ad Oreste, eroe della vendetta per eccellenza, un messaggio di misericordia. Oreste, una volta compiuto il duplice assassinio, si pente rinnegando il «gran macello» in nome di concetti del tutto nuovi che non appartengono al «grechico vucabular»: il perdono e la carità. Il capo della città di Argo chiede ad Oreste di andare in esilio lontano e di rinunciare insieme alla sua terra e ai suoi diritti anche al nome che gli è stato assegnato.

Sdisorè” rinuncia alla sua tradizionale identità, ma il suo sarà forse un viaggio verso una nuova più vera identità. La «granda e sacra vela» di Oreste prende il largo nel tramonto e si sente nell’aria l’attesa della comparsa del «remador atteso» che sappia condurre l’umanità ad un diverso approdo.

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«Invoco te, scrivan o narrator che sei» con queste parole il personaggio di Egisto si rivolge all’autore.

Anche in altri monologhi teatrali di Testori con i quali mi sono già misurato (Cleopatras e MaterStrangoscias), i personaggi si rivolgevano all’autore, ma la cosa rimaneva nell’ambito di una ludica metateatralità. Si trattava di personaggi in cerca di un autore il cui ruolo, nei loro confronti, si confondeva con quello divino e l’autore restava così, lontano e artefice del suo ironico distacco.

Qui al termine scrivan si aggiunge narrator dove però narrator non appare come semplice sinonimo di scrivan dal momento che il narrator è concretamente presente sulla scena ed è proprio lui a dare corpo a quegli stessi personaggi che lo invocano. Nella figura del narratore, i personaggi sono già pertanto presenti, ma lì è anche presente l’autore del cui pensiero il narratore si deve fare pienamente carico.

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Il narratore è il corpo dell’autore che rivive materialmente, attraverso di lui, i tormenti, le angosce e le debolezze di una umanità stolta e crudele, ma pur sempre unica e insostituibile. Le rivive come un gioco che pian piano si trasforma in sorpresa per lui e per chi lo ascolta. Una sorpresa culturale già scritta nella mente di chi l’ ha scritta e nuova per colui che sulla scena è delegato a scoprirla per noi. Ne viene un gioco a doppia mandata dove colui che ci racconta la storia ne scopre il succo proprio nel momento in cui ce la consegna e, in più, scopre di doverla fare sua perché è di fatto sua anche se lui stesso la sta rendendo pubblica mentre se ne chiarisce gli snodi.

Orario rappresentazioni: martedì, mercoledì, giovedì, venerdì e sabato ore 20.30 – domenica alle ore 18.00.

Galleria Toledo, teatro stabile d’innovazione
Via Concezione a Montecalvario 34
80134 Napoli

Per info: 081.425037 – galleriatoledo.info – segreteria.galleriatoledo@gmail.com.

Ester Veneruso